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Il sito dell’associazione e lo stesso blog proseguono al seguente sito:
http://koinobion.wixsite.com/koinobion
Per qualsiasi informazioni circa le attività, i seminari et, fate riferimento ai contatti che sono riportati sulla Home page.
Saluti
Lamberto.
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Io non so giocare con le parole, ma credo che davanti all’orrore di queste ore non ce ne siano molte da spendere. Sono rimasto ammutolito, la bocca serrata e il pensiero pietrificato. Dal profondo riesce a farsi spazio solo un sentimento pericoloso, un mix di rabbia e rassegnazione. Pericoloso perchè riconosco che a questo punto il rischio di cedere al desiderio di un riscatto violento e cieco, di lasciarsi andare alla logica dell’odio e alla sua giustificazione sia molto alto. Il sospetto, la differenza, l’anomalia si è fatta certezza e l’altro, il nemico, deve essere eliminato, cosicché l’unica risposta adeguata alla folle mens del terrorismo sarebbe attuabile solo mettendo in campo la stessa brutale follia. Ciò segnerebbe la sconfitta del desiderio di una giustizia libera e legata al bene e metterebbe fine all’attuazione buona della nostra umanità.
L’altro pericolo è lasciarsi sprofondare ad un sentimento di rassegnazione. Una passività del pensiero e dell’azione con la quale tentiamo di anestetizzare i nostri cuori. Non possiamo fare nulla davanti a questo orrore dunque, chiniamo il capo e andiamo avanti come se ne niente fosse. Ma il “come se niente fosse”, non è più possibile, sarebbe solo la rimozione di un orrore che ha colpito in modo irreversibile il cuore dell’umano. La fuga da una ferita mortale e da una paura che a questo punto coinvolge tutti e da cui non si può scappare. La passività è inchinarsi a questa paura.
Paradossalmente davanti ad una follia così violenta non resta che pregare. L’atto della preghiera non è il frutto di una regressione emotiva, una fuga irrazionale con la quale cercare consolazione, ne un monologo superstizioso con un feticcio di noi stessi, ma è aprirsi all’in-sperabile. La preghiera è un’uscita, una fenditura aperta ad una possibilità altra, altra da quella dell’odio e della paura. Pregare in questo senso significa rifiutare con violenza e con passione ogni rassegnazione, e continuare a desiderare l’impossibile. Il bene e la giustizia impossibili che continuano ad appellarci, non smettono mai di farlo, sta solo a noi non smettere mai di crederci e non smettere mai di pregare.
La preghiera infine è per quanti hanno subito l’orrore, è un memoriale che li strappa all’oblio e li restituisce ad un senso. Li accompagna e li consegna nelle mani dell’innocenza indimenticabile. Un’innocenza che non è nostra.
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*I termini insperabile, impossibile, indimenticabile, sono indegnamente presi a prestito, dall’opera di JEAN LOUIS CHRETIEN, L’insperabile e l’indimenticabile, Cittadella editrice.
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1 Maggio 2016Gruppo di studio.
Ci vuole una sana passione per venire qui in collina di domenica mattina presto, per riflettere, meditare e sognare insieme.
Poi ogni tanto, tra i travagli, arriva qualche parola legg era che da forza e fa sperare..
Grazie..
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“Gli rispose Gesù: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama non osserva le mie parole; la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi.”
Il Vg di Gv ci invita ad entrare in una dimensione di empatia e di reciprocità con la storia, con la vita e con il suo Arkè. Condizione unica, l’amore. Solo chi ama è capace di custodire la Parola. In effetti solo chi ama è capace di cogliere i luoghi del Senso, dove avviene il mutuo riconoscimento, dove si genera l’empatia profonda e dunque anche la responsabilità della cura. Giovanni parla ad una comunità, certo, ma il suo pensiero è rivolto all’uomo, ad ogni persona. Ogni uomo, che responsabile della cura della Parola, si fa esso stesso sua dimora. Questa si da nelle pieghe della storia, nei frammenti del quotidiano, nei vissuti concreti e mai ripiegata nell’astrazione ideale. La Parola si da dove ci sono effettivi gesti di attenzione e di prossimità verso il mondo e verso gli altri, e quei luoghi, di giustizia, si fanno casa della reciprocità empatica attestata da Gesù.
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In questi giorni si parla giustamente del prossimo referendum, inerente alla questione delle trivelle e del relativo problema ambientale. Come al solito un argomento così delicato e urgente si fa pretesto per fare propaganda a una politica ipocrita.
A parte questa indecenza a cui siamo oramai purtroppo anestetizzati, credo che il problema sia impostato male in partenza. La questione non è se convenga o meno continuare a trivellare il fondale marino, anche se certo è cosa non auspicabile. La questione è molto più radicale, e sta nel comprendere che l’atteggiamento che l’uomo ha instaurato nei confronti della natura, atteggiamento che negli ultimi tre secoli si è autorganizzato così tanto da assumere una sua forma, una sua autonomia (la téchne), è malato e assolutamente non più sostenibile. Qui non si tratta di urlare in nome di un allarmismo ideologico, tanto meno a motivo di una paranoia a sfondo apocalittico, ma di una realtà oramai evidente quanto allo stesso tempo taciuta e occultata.
L’attuale sistema produttivo e di mercato sta portando l’umanità verso preoccupanti livelli di distruzione in termini di degrado ambientale ed esaurimento delle risorse naturali disponibili. La popolazione del pianeta continua ad espandersi, a prelevare risorse, acqua ed energia dall’ambiente, a diffondere inquinanti e disperdere rifiuti, producendo danni al territorio, all’aria ed all’acqua in alcuni casi irreversibili. Il 2050 è la data che indica un punto di non ritorno.
Le risorse materiali ed energetiche del pianeta sono a rischio sotto la forte pressione esercitata dai modelli di produzione, commercio e consumo attualmente in uso. La logica della crescita e dell’opulenza, che sta alla base del nostro sistema di mercato, produce infatti la modificazione e la devastazione di interi ecosistemi, utilizza una quantità eccessiva di risorse naturali, genera una massa enorme di scarti e rifiuti non “metabolizzabili” dai sistemi naturali, provoca altissimi livelli di inquinamento e causa l’estinzione di circa 30.000 specie viventi l’anno.
(Si veda ELDREDGE N., La vita in bilico – Il pianeta sull’orlo dell’estinzione, Einaudi, 2000.)
Ciò che emerge è che la Terra sta male, e che sta soffrendo. Certo il suo è un lamento dignitoso, continua infatti instancabilmente a porsi nella logica del dono, ma di certo sta faticando molto.
La terra non è un “oggetto” con cui giocare per soddisfare il nostro incontenibile godimento narcisistico. Non è una “terra altra”, un luogo neutro, anonimo, da cui possiamo succhiare, rubare, predare come bestie. Non è un “oggetto” su cui possiamo scaricare le nostre frustrazioni e pulsioni violente.
La terra, la natura, il cosmo è un “Soggetto”, e come tale non è nostro. Ha le sue leggi, i suoi ritmi, per alcune popolazioni ha anche i suoi sentimenti. Certo non si tratta di rimpiangere o di auspicare il ritorno ad una dimensione simbiotica e indifferenziata, quanto di capire che abbiamo a che fare con con un soggetto vivente, che ci dà la vita, ci parla ed ha un suo respiro. La terra ha permesso e sostenuto la nostra storia, l’ha sopportata anche quando piena di sangue. Questa terra su cui appoggiamo i piedi è una madre. (mater/materia).
Il grande poeta indigeno argentino Atahualpa Yupanqui ha cantato: «L’essere umano è la Terra che cammina, che sente, che pensa e che ama».
Lo stesso Gesù si autonominava “Ben Adamah“, letteralmente figlio del terroso, figlio della terra. Siamo della stessa pasta, della stessa materia..E’ dunque un legame profondo, ontologico quello che ci ri-lega ad Essa.
Il concetto di interdipendenza così fortemente richiamato da Papa Francesco nell’enciclica Laudato si, (categoria così cara al buddismo e al taoismo), si muove proprio in questa prospettiva. Tutto è interdipendente, tutto è relato.
Dunque si tratta proprio di cambiare prospettiva, di cambiare paradigma. I problemi che verranno in emergenza nei prossimi anni, non faranno altro che mettere in luce il bisogno di promuovere criticamente e creativamente questo cambiamento. Non una semplice fase di cambiamento, ma una trasformazione radicale. Quello che stiamo attraversando è infatti un passaggio epocale. Ciò, se non vuole essere subito in modo anche catastrofico, implica, come dicevano gli antichi alchimisti, una vera e propria rotatio, una rovesciamento di orizzonti, di comportamenti e di sensibilità.
Noi siamo sospesi sulle spalle di un paradigma che è morto e incenerito, aspetta solo di crollare. Ci illudiamo di procedere ma la cenere si sgretola sotto i nostri piedi. Ed è evidente che se pensiamo di poter costruire una storia, un futuro sul nulla, alle generazioni a venire lasceremo solo un soffio di polvere.
Il cambiamento richiede una sensibilità diversa, non ego-centrata, non autoreferenziale, ma profondamente e umilmente in dialogo. Una sensibilità che non ha a che fare con l’emotività, o con la chiacchiera, ma che affonda le sue radici nella premura, e in un silenzio attento, discreto, che si fa parola e gesto.
La premura silenziosa risveglia la sensibilità, la sana dal ripiegamento in se stessa, la apre riportandola alla sua possibilità, che è quella di andare incontro all’altro, di prestare attenzione, cura e novità.
E la terra aspetta questo incontro e questa dedizione.
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